A cura di Marina Pillon
Avete mai vissuto direttamente o indirettamente, ma da vicino, gli effetti di una dipendenza?
Intendo quell’alterazione nel comportamento di una persona che da semplice caratteristica, o abitudine, o condizione temporanea, trasforma letteralmente il soggetto.
Che si tratti di predisposizione latente legata a tratti di debolezza caratteriale, cattive abitudini, eventi che portano a prendere medicine non secondo protocolli, poco importa. Il risultato sarà un graduale inasprirsi di certi aspetti e comportamenti del soggetto che sarà risucchiato da una patologica ed esasperata ricerca di quello stare bene con qualunque mezzo, a qualunque costo.
Più va avanti questa ricerca, più si allontana la possibilità di stare bene, di placare il proprio dolore, di trovare anche solo sollievo.
Ci sono tanti ambiti e tipologie di dipendenza certo, ma non è su questo che intendo soffermarmi, quanto piuttosto sul tabù dell’argomento.
Ho iniziato l’articolo ponendovi la domanda se siate mai stati coinvolti anche indirettamente, ora vi aggiungo anche una domanda più neutra ovvero se non abbiate mai letto un libro o visto un film che racconti di un personaggio travolto da una dipendenza.
Se in qualche modo avete avuto occasione di portare la vostra attenzione su tale vissuto vi sarete certamente resi conto di quanti danni può fare il non voler riconoscere il problema, il non intervenire per tempo.
Magari non sempre si trovano persone capaci di supportare o professionisti in grado di lavorare su questo, in fondo siamo tutti esseri umani e non tutte le pizze sono buone come quelle del nostro pizzaiolo preferito, ma il primo e importantissimo passo è abbattere questo tabù.
Può capitare anche a persone forti e indipendenti di vivere una situazione di dolore che le porta ad abusare di antidolorifici fino a divenirne dipendenti. Ci si potrebbe chiedere come e’ possibile, ma se si osserva davvero, se si pone realmente attenzione al vissuto ci si può accorgere che dietro a tutto ci può essere stato un blocco emotivo, come una chiusura accidentale di una diga in cui oltre all’acqua si andavano ad ammassare scarti portati dal letto del fiume.
Immaginate blocchi di una vita in presenza di dipendenze da droghe, da alcool, da gioco, etc… Se poi avete avuto occasione di osservare gli effetti da vicino sulla persona e i vari ambiti della sua socialità, sulla famiglia, sono certa vi renderete conto di quale impatto si tratti.
Poi certo ci sono anche dipendenze meno “pesanti”, forse più invisibili, come quelle nate con la vita moderna. Pensate alla paura diffusa che ha nutrito gli anni della pandemia creando nuove forme di blocchi interiori.
Per questo e mille altri motivi è fondamentale lavorare su se stessi, imparare ad elaborare i propri vissuti e quando necessario chiedere aiuto.
Le emozioni sono una cosa meravigliosa, quando sono emozioni sane elaborabili, autentiche.
La ricerca di emozioni-sensazioni che non si possono più ottenere se non attraverso l’oggetto della dipendenza va nella direzione opposta alla consapevolezza e all’espressione di sé.
Già le emozioni…ma spesso sono anche le emozioni di chi sta intorno al soggetto in difficoltà ad essere difficili da gestire.
Un figlio drogato può stimolare in un genitore un senso di colpa e mettere in dubbio la propria capacità genitoriale, una moglie che abusa di antidolorifici e altro può stimolare il senso di colpa in un marito poco presente o che non si è accorto del dolore che provava a seguito di un incidente, una donna abbiente con problemi di gioco d’azzardo può essere per un po’ coperta dal marito che pur di non far sapere in società il loro dramma si indebita finendo sul lastrico, un marito alcolista può essere accompagnato da una donna debole che ne copre anche le violenze pur di non riconoscere anche con se stessa che ciò che han subito i figli poteva essere fermato.
Poi ci sono anche le emozioni scomode di chi è un po’ più in là, sa di certe dipendenze e degli effetti deleteri, ma non vuole che ci siano interventi di aiuto perché significherebbe ammettere che c’è un problema. Spesso c’è l’idea che riconoscere una difficoltà sporchi la propria immagine, crei delle crepe anche nella propria vita e il problema potrebbe risolversi da sé, mentre la realtà è che solo affrontando per tempo un disagio si può porre rimedio.
A volte le difficoltà tirano fuori il peggio delle persone e in questi anni di pandemia sempre più le persone si sono messe le une contro le altre anche senza reale motivo, incrementando i propri personali demoni. Probabilmente i cambiamenti che sono intervenuti nella società si trascineranno nel tempo e sarà quindi necessario trovare un modo per non nutrire più certi demoni.
Le difficoltà infatti possono anche essere l’occasione di ripartire e rimettere in discussione se stessi per andare oltre al senso di resilienza e ripartenza, mettendo certi problemi sotto al tappeto.
Qualcuno ha iniziato a sentir parlare di anti fragilità, vi lancio un seme da piantare: lavorare su una propria difficoltà incontrata in questo periodo di incertezza che però guardandola in una nuova prospettiva potrebbe divenire una risorsa.
Contemporaneamente impariamo a vedere diversamente anche certe fragilità emotive che richiedono il giusto approccio di supporto e intervento e non negazione.
Non amo le mode e quindi non facciamo diventare il concetto di anti fragilità la nuova bandiera.
Sono però tempi di cambiamento che richiederanno di trovare nuove vie per crescere e trovare nuove dimensioni dello star bene.
Non è la negazione di un problema, di un disagio emotivo, di una situazione che non piace, di un pensiero che non condividiamo a portarci al ben-Essere.
Fino a che restiamo In dipendenza anche di vecchi schemi che ci bloccano dei nostri loop mentali saremo intrappolati.
Lavoriamo su noi stessi e sull’accoglienza delle nostre e altrui fragilità per trovare in questo caos nuove risorse.
In-dipendente-mente